NON VI È NULLA LAGGIÙ
Non fu solo un'idea del mio medico, quella di camminare e passeggiare a lungo nel verde. Forse l'accenno a quella necessità ebbe soltanto l'improvviso potere di illuminarmi, di risvegliare in me tante strane immagini della mia prima giovinezza, sepolte nel dimenticatoio, e, in fondo, di chiarire i motivi per cui, sfrecciando in automobile su quella strada maestra, per anni avevo guardato con tanta gelosia i contadini nei campi circostanti invidiandoli perché, volgendosi dietro il trattore, lo sguardo quasi metafisicamente affisso sulla zolla rivoltata dall'aratro, nemmeno si accorgevano dello scorrazzare rumorosamente insensato della veloce, sofisticata automobile, né di noi „volanti“ a bordo, noi che alla terra, all'acqua , all'aria e al fuoco assegnavamo un altro significato, del tutto letterario. Sulla strada, su quella parte di natura spianata a forza e umiliata dall'asfalto, avrebbe potuto succedere di tutto senza che l'equilibrio esistenziale di quei viticoltori ne venisse intaccato, mentre essi, silenziosi come in un'incisione del Valvassor, i vimini appesi alla cintura, andavano, ognuno nel proprio filare, da un sarmento all'altro e, coccolando le viti, attendevano il richiamo del desinare a mezzogiorno o quello del vespro al crepuscolo. Recando con sé solo qualche piccolo attrezzo, il fiasco vuoto e il manello dei rimanenti ramoscelli di salice, e seguendo il loro vicino pastore, il quale, nell'intervallo tra ogni terzo o quarto „din-don“, lanciava i propri richiami, i vari „'sti!“, „trrr!“, „ciò!“, „vari, nà!“ , a seconda degli animali che incalzava, raggiungevano allora il nastro scuro, la strada sulla quale, come in certe cartoline notturne di remote metropoli, erano disegnate le variopinte tracce luminose dei saettanti fari. Qui la pastorale sarebbe subitamente cessata, ma solo per un attimo, soltanto finché, come creata da mano divina, non si sarebbe aperta in quell'abbagliante sibilare un'effimera sequenza di vuoto, una specie di ponte-galleria di un mondo parallelo, che soltanto qui, sulla strada, si compenetrava con l'aldiquà, ma che già qualche passo avanti, sul suo margine opposto, si trasferiva nel suo proprio aldilà, nel mistero degli articolati viottoli di campagna che bruscamente penetravano nei primi boschetti bui.
Peraltro era difficile dire che cosa effettivamente ci fosse lì, dietro quei boschetti. Dal mio dinamico campo visivo automobilistico, i cartelli, che richiamavano l'attenzione sugli incroci con strade secondarie e quelli con i nomi di villaggi o stanzie, apparivano inverosimili, come se in effetti non portassero da alcuna parte, perché dietro quei crocevia e quei boschetti sembrava non esserci nient'altro che qualche poggio desolato o una landa screziata da rocce invase dai licheni. Veramente, percorrendo a tutta birra il mio mondo parallelo, talvolta avvolto da un'impenetrabile nebbia, talvolta infinitamente trasparente, io presentivo che quel mondo parallelo non era poi tanto impossibile. Qui e là, attraverso i cespugli e fra i declivi, sarebbe sfrecciata – ecco! – una casetta, oppure, al pari di un' esile aguglia, avrebbe guizzato la rotaia azzurrognola di un'irreale ferrovia.Quei modesti cartelli stradali, talvolta appena percettibili, erano disordinatamente distribuiti un po' qua un po' là, parti di un disarmante design stradale, di cui era certamente impossibile penetrare lo scopo, salvo che potevano ancora segnalare ai più sfegatati raccoglitori di funghi o di asparagi dei piacevoli posti dove sistemare in fretta le proprie auto, per poi sparpagliarsi furbescamente, prima dell'arrivo di altri concorrenti, nei campi traboccanti di funghi meravigliosi e nei boschetti avvolti in seriche asparagine.
In circostanze diverse mi sarei forse lasciato andare alle risapute nozioni sulle caratteristiche geografiche riportate dalle carte, al fatto che a un paesaggio ne segue un altro e che tutti assieme si susseguono a perdita d'occhio nel terrestre variopinto acquerello; avrei dato per scontato che le mie strane osservazioni erano più che altro effetti ottici che la strada poteva provocare in un guidatore concentrato sull'intenso scorrere del traffico nei due sensi, accostando e superando su una strada che talvolta assomiglia a un infinito, serpeggiante filo di vetro, conduttore di luce, all'esterno dei cui margini si spalanca solamente un vuoto profondo, pieno di terrificanti tenebre e silenzio, - avrei..., se non si fosse verificato un avvenimento che mi convinse definitivamente come quell'impotente galleggiamento sulle quattro ruote, alla stregua di una veloce slitta bianca in una sterminata pianura di nebbia, possa talvolta signoreggiare completamente sulle nostre percezioni, e non nel senso di pericolosa stanchezza e sterile sonnolenza, bensì in senso affatto metafisico, allorché il pensiero osa sfiorare quasi indecentemente la sottile invisibile membrana, quel misterioso imene cosmico, che separa l'aldiquà dall' inconoscibile e dall'assoluto.
Se la primavera non fosse stata così piacevole e la serata calda e trasparente, e già striata dalle prime stelle, tutto ciò sarebbe probabilmente apparso più irreale. Invece era tutto così palpabile: la strada liscia sussurrante qualcosa nel suo infinito alfabeto Morse di linee piene e tratteggiate, la lucida automobile che penetrava quasi senza rumore attraverso pittoreschi boschetti glauchi sulle cui rotondità il crepuscolo delle sera aveva già sparso tutte le sfumature di verde, e noi – il mio amico e io – silenziosi, gli sguardi immersi nelle portentose luci fluorescenti del quadro degli strumenti.
Cionondimeno sorpassavamo misteriosi crocevia, dove in un'einsteiniana curvatura dello spazio il fantastico l'equilibrio fra realtà e mistero era stabilito dalle minuscole fermate degli autobus locali e dai cimiteri di campagna orlati di silenziosi cipressi. Non c'è dubbio che, se in un simile crepuscolo, vi foste avvicinati di soppiatto a un posto così incantato e vi foste un pochino acquattati, avreste visto un insolito montaggio delle attrazioni: il sibilante lampo di un autotreno che, simile a un luna-park volante con il suo variopinto fascio luminoso, avrebbe per un istante divorato tutte le ombre e le sagome ... e una strana figura accanto alla strada, leggermente china, mascherata e, chissà perché, volta verso settentrione.
Forse quanto seguì fu nient'altro che la conseguenza del nostro lungo silenzio, ma da quello stato di ammaliamento ci risvegliò la sensazione che, avendo deviato dalla strada principale, noi nella nostra automobile-capsula avevamo ad un tratto incominciato a fluttuare in quell'altro mondo parallello a noi ignoto. E forse quella strada, in verità un sentiero irregolare, sempre più stretto e tortuoso, dai fianchi cinti da muri a secco asceticamente puliti e, qua e là, ricoperti da una vegetazione indomita, null'altro era che la sottile linea discriminatoria che tutto separa.
La sera già inoltrata e una lieve vertigine primaverile, quel procedere in direzione di un qualcosa di oscuro: tutto ciò ci dava l'impressione di essere finiti in una specie di vorticosa galleria e di venir appena percettibilmente rallentati dalla forza centripeta di una strana spirale che, in lontananza, si stava contraendo.
„Sonnolenza“, pensai. „Sonnolenza...“
Bruscamente l'auto invece si arrestò. L'amico aprì il finestrino e si mise a parlare con qualcuno. L'aria fresca mi riscosse. Non so se dessi l'impressione di prestare attenzione, ma l'uomo in cui ci eravamo imbattuti e che ci stava spiegando che direzione dovevamo prendere, si chinò fissandomi proprio come se si rivolgesse a me. Era una cosa del tutto reale, era come nel mio mondo parallelo. Persino l'oscurità che attanagliava il paesaggio lasciava discernere i contorni delle case rurali davanti a noi.
Poco distante da lì c'era anche la casa del falegname. Ci fermammo sotto un lampione dalla luce soffusa e stancamente tremolante. Una volta entrati nel cortile, scorgemmo attraverso la porta aperta della stalla una donna intenta a mungere una capra.
„Il padrone è in officina“ , ci gridò. „Fate il giro, il giro“.
Girato che ebbimo attorno alla casa, entrammo in un locale vasto, fortemente illuminato, pieno di trucioli e segatura.L'odore intenso di legno stagionato e colla e il frastuono dell'unica macchina ancora in funzione dissiparono anche l'ultima traccia di torpore. Qui la vita reale si poteva toccare con mano.
Il falegname ripose il pezzo di legno cui stava lavorando, spense la macchina e ci invitò in casa. Attraverso un corto corridoio passammo dall'officina in una stanza non grande, piuttosto scura, forse una sala da pranzo. Sulla massiccia tavola di legno c'erano vino rosso, pane e un coltello, sulla parete un'“Ultima cena“.
Non so che cosa avrebbe dovuto succedere, peraltro non so nemmeno perché ci trovassimo lì. Non ero in grado di comporre tutti quei cambiamenti in un quadro coerente. Ero ossessionato dai segnali. Mi rintronava ancora le orecchie il frastuono della macchina e del potente aspiratore che riempiva di trucioli un enorme otre, e il silenzio non si era ancora ristabilito che già il falegname si era messo a raccontare, diffusamente con voce acuta, un'insolita storia.
„Oh, no, no“, disse a un tratto, „noi abbiamo ucciso il televisore. Morte, sangue, violenza, menzogna: tutto ciò non ha a che fare con noi. E poi avrete certamente capito dove siete capitati.“
Ci guardava con penetranti occhi azzurri, come se stesse egli stesso decifrando un'inusuale segnaletica, come se anche i suoi mondi si fossero rimescolati. E, davvero, che cosa stava scritto nei nostri sguardi? Non è forse vero che, poco prima, stavamo ancora navigando in un diverso corridoio, con altre, assolutamente ordinarie intenzioni?
Interrompendo il breve silenzio, il falegname convocò la moglie e, quando la robusta massaia apparve sulla soglia, le disse:
„Marija, porta qualcosa da cenare. E manda le bimbe a salutare gli ospiti.“
In quell'avaro rivolgersi alla donna c'era qualcosa di elementare, qualcosa di intransigente ma solido, qualcosa che stava qui da secoli. E anche il modo in cui, seguendo la madre che aveva portato una frittata di asparagi e un pezzo di formaggio, tre ragazze, una più bella dell'altra, gli occhi azzurri e lo stesso sguardo penetrante del padre, erano entrate nella stanza e ci avevano augurato la „buona sera“,ritirandosi subito dopo – fu estremamente letterario e irreale.
Tuttavia, quando nell'accomiatarci uscimmo in cortile e la pungente notte primaverile si era impadronita del paesaggio, sembrò per un momento che una generale livella ci stesse nuovamente, piano piano, rimettendo in equilibrio. Il vasto cielo era cosparso di stelle fino all'estremo limite dell'orizzonte.
„Ecco, lì all'incrocio, svoltate a sinistra“, disse il nostro ospite, „e dopo cinque minuti vi troverete sulla strada principale“.
„Perdio!“ , pensai. „Possibile che sia così vicino?“
Ma vicino a che cosa? Non eravamo forse nella vita reale? Non ci trovavamo forse qui, nelle vicinanze di un paesetto? Che ci fossimo smarriti nel tempo e nello spazio?
Effettivamente, tutto pareva soggiacere a un altro tipo di criteri. Parlo, naturalmente, del senso del tempo, che comunque agiva al di fuori e malgrado noi. Ecco, anche adesso, il momento stesso del congedo durava troppo a lungo, come se fossimo in preda al torpore di un'interminabile notte polare.
„E che cosa c'è da quella parte?“, chiesi, indicando la direzione opposta a quella in cui ci aveva indirizzato il falegname.
„Lì c'è la ferrovia, e la sbarra“, disse lui.
„E dietro la ferrovia, dove porta quel sentiero?“
„Lì non c'è nulla“, disse il falegname, improvvisamente abbassando la voce con un gesto indifferente della mano. Poi, come d'un tratto sopraffatto da un'incoercibile abulia, ci salutò e se ne andò.
Rimanemmo ancora per qualche istante così, assorti, lo sguardo perduto nel nulla, poi ci mettemmo in auto e ci dirigemmo verso la ferrovia. Era forse una decisione strana, ma evidentemente gli avvenimenti accadevano da soli, facendoci partecipi di un racconto sul quale non potevamo davvero influire.
Ci fermammo poco distante dalla strada ferrata, e ci incamminammo quasi senza far rumore. Era un'insolita ora della notte, ma quel noto suono della sbarra che calava: „clic, clic, clic, clic“ ci avvertì che, da un momento all'altro, da questa parte del cosmo sarebbe passata di volata, ritmicamente rimbombando, la mirabolante, potente, scintillante cometa del treno.
Stavamo fermi in trepida attesa accanto alla sbarra, gli occhi infantilmente sgranati, assorbendo la pace celeste che ci sovrastava. Era eccitante e quasi incredibile, anche perché eravamo così vicini alla potente eclittica di quell'altro mondo parallelo dove sfrecciano treni incantati. Mi ricordai che nell'infanzia attendevamo con impazienza le eclissi di sole e di luna, la cometa di Halley e le protuberanze solari,ma adesso il miracolo della meccanica del cosmo sarebbe avvenuto qui, di fronte noi, fra qualche istante.
E, veramente, un improvviso botto annunciò la drammatica apparizione del treno. Ma non so perché, forse perché eravamo affatturati dalla scena, forse per quella sonnolenza cui non ci potevamo sottrarre, o forse successe proprio così, fatto sta che tutto si svolse secondo mutate leggi del moto. Entrando presumibilmente in un suo apogeo, il treno procedeva innaturalmente lento, come se reprimesse la sua forza interna per regalarci uno splendore e una bellezza irresistibili. Appoggiati alla sbarra, osservavamo come dal ponte di comando di un'altra nave quel meraviglioso „Titanic“ terrestre, che ci stava lentamente superando e, spargendo il fulgore dei suoi scompartimenti, portava da qualche parte quelle persone le quali, così assonnate, fissando la fitta oscurità, si chiedevano che cosa ci fosse lì fuori, lì dove eravamo noi, in quel sonnacchioso mondo a loro parallelo.
Terminato il suo affascinante slow motion, il treno s'immerse lentamente nel denso plasma delle tenebre che, come un mare, si chiuse su di esso.
Regnò un silenzio assoluto. Stranamente anche la sbarra che si stava alzando non fece rumore, come se qualcuno avesse imbavagliato quel „clic, clic, clic“.
Attraversammo i binari e, non appena ci fummo un pochino distanziati dal passaggio a livello, avvertimmo di trovarci in una nuova, strana condizione. Il silenzio era assoluto. In verità era un buco nero dentro al silenzio. Una parola eventualmente pensata sarebbe stata cancellata, svanita come quando viene a mancare la corrente elettrica.
Proseguire era pericoloso. Quel terrificante margine del Nulla era qui, assolutamente vicino. Se avreste osservato meglio, avreste potuto vedere che al limite dell'orizzonte i dettagli sparivano e che, in basso nel cielo, le stelle erano sfatte, come spalmate in un disegno accademico.
La magica campana di vetro dell'universo si assemblava proprio qui, accanto a noi. Per fortuna noi ci stavamo sotto, un pochino intimoriti, ma tuttavia in grado di distinguere le forme e nominarle.
Traduzione di Elis Geromella Barbalich