LA MANO E LA SCORZA DI LIMONE
“Nelle sue preghiere un saggio orientale impetrava sempre dalla divinità di venir risparmiato dal vivere in un’epoca interessante. Poiché noi non siamo dei sapienti, la divinità non ci ha graziati, sicché viviamo in un’epoca interessante”. Lo disse Albert Camus in uno dei suoi discorsi svedesi, ma quelle parole si addirebbero anche a Omero, a Rableais e a Balzac. Si addirebbero naturalmente anche a Krleža, nonostante che ai suoi tempi fosse stato già coniato il sintagma letteratura impegnata, che tracciava definitivamente una netta linea divisoria fra due concezioni fondamentali e antitetiche dell’arte, vecchie quanto l’arte stessa. La fine del sincretismo artistico primordiale comportò in effetti la fine dell’innocenza sociale umana; in quello stesso momento, il problema dell’arte impegnata divenne cruciale, una questione di cui si occupano già da secoli, ognuno a suo modo, sia gli artisti che i governanti. È un garbuglio di cui, purtroppo, l’arte non si affrancherà mai, ma è indicativo che il sintagma l’art pour l’art sia stato creato più di un secolo prima della definzione sartriana dell’arte impegnata, rispetto alla quale ha senza dubbio avuto effetti più profondi e duraturi sulla letteratura.
Il sapiente orientale di cui sopra non sarebbe certamente stato tale se non avesse saputo che fare di se stesso in un’epoca interessante; ma che ne sarebbe invece, sempre in un’epoca interessante, dell’arte senza impegno? È una questione che non ha potuto venir risolta da un sintagma più che altro tautologico e nel contempo controverso, al quale Sartre, nel suo lungo saggio polemico intitolato “Che cos’è la letteratura”, conferirà il peso e l’importanza di un dogma. L’arte è emanazione di uno spirito libero e ogni imperativo contrasta con la sua essenza. Per questo la fervida perorazione sartriana a favore di una letteratura impegnata è rimasta in buona parte contradditoria e indefinita. Il Sarte-artista e il Sartre-filosofo di chiaro orientamente politico si sono azzuffati attorno a un nodo gordiano che viene sciolto dall’arte stessa. Per un istante il Sartre-artista trionfa. Asserendo che la poesia non può essere impegnata (!), a differenza della prosa che deve esserlo – asserzione, in verità, deliziosamente ingenua per un filosofo del suo calibro –, Sartre scrive alcuni stupendi frammenti saggistici sull’arte poetica, frammenti che non solo enucleano fantasiosamente e fondatamente l’essenza della poesia, ma che, a loro modo, ne difendono anche l’autonomia e la libertà. Parlando invece della prosa e del suo impegno, Sartre diventa a un tratto un dogmatico sfegatato, nel cui potente arsenale polemico vengono a trovarsi argomenti più efitraletterari che letterari. Egli sviluppa sistematicamente l’idea dell’utilitarismo della prosa, corroborando le proprie tesi con riflessioni filosofiche a onor del vero acute, ma in ultima istanza, anch’egli, come tanti altri prima e dopo di lui, riduce tutta la complessità fenomenologica della letteratura a un rapporto in bianco e nero fra il bene e il male nella società umana. In ciò sta appunto la sua incompiutezza. Perché della questione del bene e del male si occupano da sempre sia il Bene che il Male. Sartre era naturalmente convinto di parlare dal punto di vista del Bene, ma in quanto filosofo avrebbe dovuto sapere che la sua convinzione era relativa, onde per cui è estremamente relativa anche la seguente domanda: che cos’è effettivamente la letteratura impegnata? Da un punto di vista di conflittualità sociale, e a prescindere dalle formazioni sociali in gioco, è la letteratura dell’opposizione; dal punto di vista del potere è la letteratura che lo appoggia. Però, in caso di rivolgimento sociale, se l’opposizione conquista il potere, lo status della letteratura impegnata cambia, sia dall’uno che dall’altro punto di vista. Ne risulterebbe che la letteratura sarebbe sempre in funzione delle necessità, delle correnti e delle trasformazioni sociali, il che significherebbe che essa sia, per sua natura, secondaria.
Si tratta naturalmente di una constatazione per deduzione, che la storia dell’esperienza letteraria ha smentito. Almeno in parte. Perché esistono effettivamente scrittori la cui letteratura è stata determinata da un’epoca interessante, ma anche scrittori la cui letteratura ha reso interessante una determinata epoca. Anche l’ammissione di secondarietà della letteratura va quindi intesa al condizionale. Ed è un’ammissione comunque non priva di strascichi.
Anche noi viviamo in un’epoca interessante. Un grande impero è crollato sotto i nostri occhi, e tuttora viene sfaldato e demolito. La deflagrazione è stata potente, i cambiamenti sono drammatici. Ma neanche noi siamo dei sapienti, né supplichiamo gli dei di fermare il tempo. Allora sí, che l’epoca non sarebbe interessante. E, d’altronde, che ce ne faremmo?
Peraltro, quando si tratta di arte, nelle regole del gioco sociale non è cambiato proprio nulla. L’arte disimpegnata, pura e bianca, incantata dalla libertà dei primordi, scivola senza meta lungo la sfavillante superficie dell’estetismo verso un incerto e remoto traguardo, senza preoccuparsi se la ruota della storia compia ogni tanto una rotazione di 180 gradi o se invece rotoli irrefrenabilmente lungo la scoscesa spirale del destino. Quell’altra arte, disponibile all’assenso, alla secondarietà, cerca in quella rotazione, fosse pure quella di una scorza di limone sullo spremiagrumi, un proprio ruolo. Tanto più che l’assenso a quest’antico rituale non esclude in alcun caso la kafkiana possibilità di una metamorfosi della scorza di limone nella mano che la spreme. E la scorza non rinuncia a questo sogno.
Semplicemente siamo passati da un ciclo all’altro, e questo è tutto. Il resto è una questione di scelta personale.
Traduzione di Elis-Barbalich-Geromella