META(MOR)FISICA DELLA CITTÀ [1]
Palinsesti e Affondamenti
Materia all’esterno, Segreto all’interno: questa è la Città, le due facce di un grande enigma metafisico riassunto da una potente ellissi polivalente di una sola parola. Se proviamo a rifletterci per un momento da un’angolatura che non sia necessariamente storica, sociologica, culturale, urbanistica, estetica, esatto-pragmatica o in qualsiasi altro modo usuale, ci appariranno, in un’affascinante, quasi visibile correlazione tattile con la materia, le miracolose terminazioni metafisiche, delle dita sui generis del noumeno sulle quali la città, quasi irreale, o veramente troppo reale per non essere del tutto virtuale, poggia come un castello né in cielo né in terra.
Le interpretazioni materialistiche sulle origini delle città sono, naturalmente, molto convincenti e, a giudicare da tutto, corrette, ma nel momento in cui le città sono nate come peculiari fusioni della mente e delle mani dell’uomo, dallo rosfondo, dalla loro essenza materiale, ha cominciato a funzionare il noumeno, quella cosa profondamente inconoscibile, quello che non viene mai e in nessun modo raggiunto ma senza il quale nulla si sviluppa ulteriormente. Come Venezia che, come dice Brodskij in Timbro d’acqua, è una città su una zattera, al limite della tridimensionalità, così, in effetti, tutte le città sono immerse nel fluido metafisico del loro concepimento fisico, della loro creazione, nascita, vita e morte, cioè del ritorno al vasto silenzio metafisico.
Le città sono generate per concepimento spontaneo e artificiale.
Le città concepite in modo naturale nascono in modo casuale come la vita stessa, secondo le definizioni e le misure di alcune leggi superiori, la cui miracolosa meta-matica[2] l’uomo né conosce né controlla. Il momento di concepimento delle città è noto, molto più di qualsiasi scienza esatta, persino più dell’archeologia stessa, alla non comprovata meta-archeologia. Ma se anche le è noto, come tutto il metafisico, lei di questo tace. Solo da qualche parte dentro di noi, sempre di nuovo per secoli e secoli scava e riseppellisce l’inesauribile, vasto e profondo sito archeologico della memoria umana, del linguaggio e della tradizione. Quanto vorremmo sapere che cosa stesse accadendo in quell’inconoscibile momento di concepimento spontaneo delle città! In base a che cosa quelli che costruirono le prime case, tracciarono le prime strade ed eressero le prime abitazioni delle città antiche scelsero questi affascinanti e incantevoli luoghi contrassegnati da immaginarie crocette su delle mappe ancora più immaginarie? Quali bibliche canne dorate usarono per misurare le magiche dimensioni delle future città che si aprivano la strada nelle valli e sulle colline nell’incontaminata quiete del mondo appena risvegliato? C’è stato qualcuno tra i più ispirati tra loro che abbia mai visto nei suoi surreali pra-meta-sogni le future magiche città dorate sulle colline avvolte nella nebbia mattutina e le futuristiche e scintillanti città-giganti? Oppure era davvero tutto così banale e semplice come ci hanno insegnato, che solo la fertilità delle valli fluviali, la segretezza di certi luoghi o l’importanza degli incroci di alcune antiche strade abbiano determinato il concepimento delle città nel lontano passato, nelle quali noi oggi addirittura viviamo? Ma se così fosse, qual è stato l’inspiegabile fattore decisivo e in quale momento ha cambiato il loro destino, facendo di loro esattamente quello che sarebbero poi col tempo diventate? Se osserviamo la carta geografica del mondo con la più intricata rete di comunicazioni di tutti i tipi e categorie, con le intersezioni di folli righe diritte e curve, di linee piene e tratteggiate delle rotte terrestri, aeree e acquatiche, negli angoli acuti delle fitte maglie dell’infinitamente grande rete di telecomunicazioni, audiovisiva e di internet nella quali siamo rimasti disperatamente invischiati per sempre – in questi luoghi, quindi, vedremo innumerevoli città-gangli segnate con cerchi concentrici di varie dimensioni o da quadrilateri irregolari. Chi o che cosa ha fatto affinché tutto sembrasse esattamente così com’è e che cosa sarebbe successo se la stessa mano metafisica che ha creato una tale disposizione sulla tavola ovale terrestre avesse ruotato quelle mappe, come una specie di foglio colorato, di soli 2-3 gradi verso sinistra o destra, oppure le avesse tirato un po’ più avanti o indietro sullo stesso piano? Vivremmo allora nello stesso mondo che conosciamo oggi?
Possiamo in parte comprendere il momento del concepimento naturale delle città attraverso gli esempi di città create artificialmente, sebbene le condizioni ideali di laboratorio prodotte dall’umanità moderna e dalla sua matematica e meta-matica non siano in alcun modo paragonabili alle condizioni preistoriche originali e alla matematica e meta-matica delle civiltà antiche.
In particolare, la caratteristica fondamentale delle città concepite artificialmente, dai tempi più antichi fino ai giorni nostri, è lo sforzo dei loro promotori e creatori di renderle perfette, ideali, di realizzare l’unità assoluta di bellezza e funzionalità e di essere, inoltre, lo spazio all’interno del quale si realizzerà una comunità sociale ideale. Per la natura del loro concepimento e della loro nascita artificiale, che sono, ovviamente, interamente controllabili a causa del breve periodo in cui tutto ciò avviene, raggiungere un tale obiettivo sarebbe del tutto possibile, a differenza delle città concepite naturalmente la cui formazione si protrae sempre per periodi estremamente lunghi ed è abbandonata ai capricci estetici, organizzativi e pragmatici di molte generazioni di costruttori. Già Tommaso Moro però diceva letteralmente che “una vita umana non è sufficiente per tutti questi compiti” ed è per questo che il suo Utopo, il fondatore della città ideale, lasciò ai suoi successori la responsabilità di espanderla e abbellirla ulteriormente. Inoltre, la città utopica di Moro si chiama Amauroto, che secondo l’aggettivo greco ĵανρôυ (buio, cieco, invisibile) dovrebbe significare Città nascosta, Città nelle tenebre, o forse, più precisamente, Città che nessuno vede. Nelle prime versioni l’autore la chiama anche Mentirum, cioè Immaginario, Falso. E anche il fiume che la attraversa si chiama Anydrus flumen, cioè Anidro o fiume senz’acqua, con cui, ritengo, abbia sottolineato in modo indubbio e del tutto chiaro il carattere illusorio della possibile esistenza di una città ideale, benché proprio la sua Utopia, cioè la Terra Inesistente, stimolerà con forza numerose nuove riflessioni su questo tema ineludibile, soprattutto tra i pensatori e gli architetti rinascimentali, ma anche tra quelli delle generazioni successive.
Il primo tra i primi e uno tra i migliori che gli fece seguito fu il chersino Francesco Patrizio ma, come le città ideali di Dürer e Filarete, anche la sua Città felice, così come la Città del sole di Campanella, furono città ideali soltanto al condizionale. Appena Marcantonio Martinengo di Villachiara e Giulio Savorgnan, costruendo Palmanova, “dal vivo”, “in laboratorio”, tutto d’un fiato, avrebbero provato a mostrarci come davvero si costruisca artificialmente una città. Tuttavia, diciamolo subito, l’eros del concepimento e della nascita di Palmanova era estremamente triviale, militare e di conseguenza del tutto contrario all’essenza della città, soprattutto di una città ideale come paradiso terrestre. Palmanova era, in fondo, solo una fortezza di confine veneziana per la difesa contro i turchi e l’Austria. Il tempo le avrebbe attribuito gli attributi di una città ideale, ma non vi fu alcuna vera e solenne consapevolezza della nascita di una città ideale neppure tra i suoi ideatori e costruttori e di ciò, peraltro, esistono testimonianze scritte indirette. Pur seguendo la moda neoplatonica dell’epoca di concepimento delle città ideali, Palmanova, con le sue mura severamente funzionali, troppo solide e veramente troppo strette affinché vi scorra quel misterioso, indomabile, fecondo nettare della vita, quel fluido inconoscibile che eleva gli esseri e le cose (e persino le città) a un livello emozionale più alto, una tale Palmanova, quindi, col tempo perse il suo unico vero ruolo che le era stato destinato, rimanendo in tal modo senza una propria viva verticale materiale e metafisica, smarrendo completamente il collegamento tra anima e corpo, o come direbbe Patrizio, rimanendo così per sempre solo una celebre planimetria antologica nei libri, ma in realtà solo un modellino di città ideale, una mostra di città ideale, una città ideale per l’EXPO 1593-99.
Che le città, come nel caso di Palmanova, sappiano in realtà più dei loro costruttori è forse confermato in modo ancora più convincente dalla meta(mor)fisica della città (ideale) di Brasilia, artificialmente concepita. L’impressionante serie di fotografie della conquista edilizia orogenetica degli altopiani brasiliani, dal primo movimento delle macchine fino alla conclusiva bellezza architettonico-urbanistica, non può davvero lasciare indifferente nessuno. Si tratta di un affascinante filmato accelerato del concepimento e della nascita artificiale di una città ed è un suggestivo sostituto dell’inesistente filmato accelerato del concepimento e della nascita naturale di tutte le altre città del mondo, realizzato ora in modo completamente controllato.
È stato dimostrato, tuttavia, che l’energia eruttiva di una città può essere controllata solo a livello della sua fisica e precisamente solo dal momento in cui inizia effettivamente la vita in essa, quando comincia l’inarrestabile influenza di un complesso di forze fisiche spiegabili e metafisiche inspiegabili. In effetti, tutto era stato concepito, progettato, disegnato e segnato alla perfezione, ma ancorprima che iniziasse la costruzione, furono apportate numerose modifiche al piano urbanistico generale di Lúcio Costa, in seguito alle quali fu indebolita quella così importante magia divina del concepimento. E poi, nonostante tutto, in pochi anni, nacque una metropoli da sogno, con affascinanti caratteristiche e possibilità ecologiche, economiche e sociali. Sembrava un insieme perfettamente organizzato, ben pensato, ben concepito, urbanisticamente e architettonicamente completo, che avrebbe dovuto attirare la popolazione dalla sovrappopolata zona orientale del Brasile, per sfruttare al meglio le risorse naturali locali. Tuttavia, progettata per un massimo di 500.000 abitanti, Brasilia, cioè la sua circoscrizione amministrativa con le città satellite ormai completamente integrate, contava già 277.000 abitanti nel 1970, mentre oggi in essa vivono più di due milioni. Gli edifici di Brasilia sono eccezionalmente belli, ma anche estremamente disfunzionali, mentre i prezzi degli appartamenti stanno salendo alle stelle per la maggior parte dei neo arrivati, perlopiù poveri. In questo modo è stato definitivamente turbato anche quell’equilibrio sociale interno che costituisce la base di ogni potenziale città ideale. A causa della lenta costruzione della metropolitana e dell’inefficienza dei trasporti pubblici, il numero di auto private è aumentato drammaticamente e in questa città caratterizzata da ampi viali e grandi spazi verdi sono sorti gravi problemi di parcheggio. Dell’alienazione in una metropoli che così rapidamente assorbe una popolazione che deve appena creare l’interdipendenza, ma anche un essenziale legame generazionale con la sua entità emotiva, non c’è nemmeno bisogno di parlare. Così, di fatto, Brasilia ha cominciato a condividere la sorte di tutte le cosiddette città ideali o città robot che si sono staccate dai loro creatori e che ora, fermentando lentamente, stanno plasmando le propria vita e quella dei loro abitanti su misura dei chip fisici e metafisici e dei codici del DNA che sono stati definiti nel momento del loro concepimento artificiale.
Paul Valéry in un punto dice: “Due grandi pericoli minacciano il mondo: l’ordine e il disordine”. Lo stesso si può dire per le città. Il primo perché non si è mai riuscito veramente a realizzarlo in tutti i segmenti progettati, se non nelle belle opere filosofiche o nei progetti di architetti famosi, e quindi la città dell’ordine e della bellezza assoluta rimane solo una fantasia concettualistica; il secondo, invece, perché ha ottenuto pieno successo in tutte quelle città che, soprattutto in base agli odierni standard milionari (per numero di abitanti), hanno i maggiori diritti a fregiarsi di quella definizione.
Ordine e Disordine, Bene e Male, sono i quattro punti cardinali metafisici di ogni città. Come planetari dimenticati da lungo tempo, all’interno di queste coordinate astratte le città rigirano le loro costellazioni materiali e metafisiche. Vivono e muoiono oppure, come Pompei, Angkor, Chichén Itzá o Duecastelli sono ibernate in un profondo coma metafisico. Richiamate dalle lontane voci delle naiadi e delle nereidi, le città più grandi del mondo e le città più piccole del mondo, le giungle d’asfalto, le città sacre, le città-tempio, le città-stato, le città-residenza, le città operaie, le città di profughi, le città divise, le città Babilonia, i cosiddetti pueblos/città-case, le città torri infernali, le città in totale collasso elettrico, al buio come New York o Rio De Janeiro, le città del gioco d’azzardo, le città-navi, le città-labirinti, le città sotterranee, le folli città-rifugi atomici, le città dell’Ade, le città inferno in terra, le città-campi di lavoro, le città-ghetto, le città-Gulag, le Guernica, i Vukovar, le Srebrenica, le città-madri, le città-matrigne, le città-rifugio, le città-nido, le città asilo per abbandonati, le città-ali, le città-palinsesti, le città-ideogrammi, le città-lettere, le città bianche e nere, le città stazioni interplanetarie e le città cosmiche – tutte galleggiano nelle oscure acque metafisiche alla ricerca di un solido fulcro per la pienezza delle idee in grado di sostenerle sulle onde implacabili dei cambiamenti storici, per raggiungere quella tanto desiderata Terra che non c’è, oppure per sprofondare per sempre e irreversibilmente nel buio nulla totale, nella completa amnesia generale, come l’Atlantide di Platone, la Cissa rovignese o la malinconica Città nel mare di Poe. Le città materiali affondano per rafforzare per l’ennesima volta il significato metafisico della filosofia e della poesia e viceversa, o semplicemente perché anch’esse, com’è stato detto splendidamente in un luogo, come le persone che hanno sperimentato la profondità dell’affondamento interiore, riemergano ancora una volta in superficie per iniziare qualcosa di nuovo.
Questa insolita esperienza metafisica di miracolosa ricomparsa dalle profondità oscure è stata sperimentata più volte nella storia dalle due amate città delle mie due Arcadie: Pola e Skopje.
Pola, ottobre 2004.
Traduzione di Rodolfo Segnan