LA POESIA È UN SEGNO ORFICO

 

“Que serions-nous, sans le secours de ce qui n’existe pas?”

                                                                        Paul Valéry

 

Chiunque si occupi seriamente di poesia, sia come poeta sia come suo interprete, deve prima o dopo confrontarsi con la questione chiave: cos’è, in realtà, la poesia? Questa domanda è un incrocio, un miracoloso punto astratto nel quale già da secoli s’incontrano e immediatamente si dividono le idee estremamente divergenti sulla poesia, sulle cause e gli effetti della sua nascita, su di lei come fattore latente ma rilevante nella percezione umana del mondo o sul suo ruolo attivo nella realtà sociale quotidiana.

La domanda se la poesia sia un enigma metafisico sui generis è stata posta, probabilmente, nei remoti tempi del sincretismo, mentre oggi è difficile affermare se questo mistero poetico, questa forza mistica dei codici poetici, quest’apparente opacità e impenetrabilità della poesia sia una causa a sé, oppure la conseguenza di qualche lontana “paura” eleusina, dove la lettura della poesia e il tentativo di concepirla o comprenderla è, in realtà, un modo peculiare di offrire un sacrificio a qualcosa di misterioso e inconoscibile. Sia l’ispirazione sia il sapere, sia l’ideale sia il materiale partecipano a quest’affascinante turbinio di esatto e di metafisico. Pertanto, i poeti sono soltanto delle persone dotte che in modo specifico riflettono sulle cose del mondo, oppure sono il medium, l’intermediario che come gli antichi mistici e gli epopti, nel senso dato da Platone a questi termini, trasmettono dei messaggi divini che come uno specchio riflettono frammenti del Bello ideale? Cos’è dunque la poesia: uno stato fisico specifico, una singolare quintessenza del metafisico, oppure una peculiare trasposizione intellettuale della realtà materiale attraverso lo strumento della lingua. Di conseguenza, cos’è che definisce la vera essenza della poesia o l’essenza della vera poesia: la lingua sincretico/sintetica o quella analitica? Dove, in tal senso, va tracciato il confine tra poesia relativa e assoluta? Una cosa è certa: riguardo a queste domande non ci sarà mai accordo. Come neanche riguardo a Dio, alla genesi del mondo e della vita, alla nascita della stessa lingua come prima e più bella poesia (Valéry), così neanche su questi argomenti una dottrina comune non è possibile. La poesia è un particolare contrappunto metafisico: è come Dio, inconoscibile nella sua essenza, perché è conoscenza stessa. Perciò a questo punto ci appare più chiara la differenza tra filosofi e poeti: mentre i filosofi cercano la verità dell’Essenza, i poeti semplicemente colgono l’essenza della Verità.

Molti e quasi irreparabili equivoci sulla poesia, motivati da esigenze quotidiane e dai cambiamenti sociali, soprattutto nel corso del XIX e del XX secolo, sono stati creati dallo scolasticismo moderno di varia provenienza, che si è rapportato verso di lei nel modo sintetizzato in maniera lapidaria, ma anche illustrativa, dall’obsoleta domanda: che cosa voleva dire il poeta? Quante generazioni di giovani hanno dovuto rispondere a questo, in effetti, assurdo quesito? Quante generazioni sono state preparate alla vita profana nel proprio attuale ambiente sociale da quest’insegnamento così ridotto, non ispirato e non invogliante? Da ciò, naturalmente, deriva anche quel fantasma inestirpabile della prosa che si è infiltrata nella poesia per renderla più leggibile, più facile, comprensibile e accessibile al lettore medio, un fantasma che calpesta e priva la poesia delle sue proprietà, trasformandola in un enfatico, sfocato e distorto discorso prammatico. Da ciò anche la convinzione generale che la vera poesia sia soprattutto poco chiara, incomprensibile e che sia meglio starle alla larga.

Se però la lingua come dono divino (théia móira), nella pienezza della sua armonia, è la poesia più perfetta e comprensibile a tutti, come allora la stessa poesia che è parte di quest’affascinante Universo può essere incomprensibile e impenetrabile? No, qui si tratta soltanto della nostra (im)preparazione a coglierla adeguatamente e nel solo modo possibile.

Il testo poetico autentico è come la bella addormentata. Lo risveglia la coscienza, l’anima. Il testo è un corpo che ha bisogno del bacio dell’anima. Come con gli occhi vediamo e riconosciamo gli oggetti, mentre con la ragione e l’anima li conosciamo, così con gli occhi vediamo soltanto il testo/corpo. L’anima del testo è celata. Se la poesia è vuota/morta, in lei non c’è anima e non potrà risvegliarla nessun’altra coscienza e nemmeno il bacio di un’altra anima. Esiste, quindi, un testo che si può soltanto leggere nel senso letterale del termine e un testo che si può comprendere nel pieno della sua polivalenza.

Socrate, nel “Fedone” di Platone, c’insegna il modo di comprendere le cose, invece di osservarle: “Poi, osservando le cose, mi sono fermato ed effettivamente mi sembrò che bisognava essere prudenti, affinché non mi succedesse come a quelli che scrutano l’eclissi del sole, giacché a taluni si rovinano gli occhi se non lo guardano riflesso nell’acqua o in qualcosa di simile. Così venne a mente anche a me ed ebbi timore di non accecare del tutto la mia anima mentre guardavo le cose con i miei occhi e cercavo di sentirle con ognuno dei miei sensi. Pensai quindi che bisognasse trovare i concetti e vedere in loro la verità dell’essere”.1 (sottolineato da A.K.).

Osservare e percepire sono due approcci possibili, all’apparenza simili ma in realtà completamente diversi, di comprendere la poesia.

Il primo ci convince della sua secondarietà e subordinazione alle necessità sociali e in conformità a questo ci fornisce delle risposte pronte, già predisposte, alla domanda: che cosa voleva dire il poeta? Se conosciamo le risposte a questa domanda, facilmente potremmo desumere che cosa potrebbe dire il poeta scrivendo nuove poesie, o che cosa il lettore potrebbe o dovrebbe aspettarsi, o che cosa il lettore vorrebbe o dovrebbe sentire. Questo è il noto circolo vizioso senza via d’uscita delle ridondanze poetiche, grondanti di elementi discorsivi e narrativi, condite da lucide arguzie, lieve saggezza e, non raramente, patetico patriottismo. Usando la parafrasi di un enunciato critico-teorico contemporaneo riguardo alla prosa, potremmo definirla poesia triviale. E subito ci pare di sentire il cinico Baudelaire: “Sforzatevi di sentirlo banalmente bello!” Ma ancora dai tempi di Cervantes e di Shakespeare ogni discorso sul trivialmente bello, ma anche sulla poesia triviale ci sembra, soprattutto oggi, completamente fuori luogo.

La moderna concezione della poesia e la stessa poesia moderna si attengono a origini e criteri del tutto diversi. La poesia nel suo millenario processo di autosviluppo, sempre sulla traccia di quel Qualcosa di metafisico, si è di molto avvicinata al proprio assoluto, a quella singolare permeazione tra idea del Bello e Bello assoluto. Molti poeti, questi utilizzatori di sogni, come li chiama Gottfried Benn, hanno cercato, lui stesso incluso, di definire questa singolare solennità dell’intelletto, questo miracolo dello spirito. Molti sono quasi riusciti ad avvicinarsi alla definizione che mediante il sintagma poesia assoluta è riuscito, forse, ad esprimere proprio lo stesso Benn. Anche Paul Valéry, sicuramente uno degli spiriti più luminosi del Novecento, nei suoi “Quaderni” (Cahiers) ha sparso un’intera costellazione di ingegnosi e indubbiamente precisi pensieri riguardanti la poesia, o da lei derivanti, che spesso sono a loro volta vera poesia e che percepiamo come una formula infinita e onnicomprensiva di poesia assoluta, oppure, per dirla con le sue parole, di poesia pura (poèsie pure).

Elencare i nomi ci porterebbe troppo lontano. Tutta la storia dell’arte poetica è in realtà un lungo, incompiuto e non completabile rituale di comprensione del Mistero universale. Sia questo mistero Dio, che è Essenza e Tutto, o sia appena la sfida dello sconosciuto Nulla, il rito poetico si svolge inarrestabile sin dai cacofonici tempi pitici a oggi. Perché qualcosa comunque esiste come punto d’appoggio onnicomprensivo di Bellezza e Senso. Questo è la lingua. La lingua come nucleo centripeto della semantica metafisica, la lingua come memoria, la lingua come sito archeologico vivo dove si ritrovano segni, significati e sensi. Ma se la lingua è memoria, Dio in formazione e in eterna metamorfosi, si può allora definire l’essenza interiore della poesia come memoria e il canto come segno orfico?

Irriducibile complessità del sistema, l’enunciato felicemente formulato del quale si servono i creazionisti nelle loro spiegazioni della genesi e dell’evoluzione della vita, è effettivamente del tutto applicabile, in modo figurato, all’essenza della nascita e dello sviluppo della poesia. Perché ogni opera poetica che si avvicina all’assoluto di qualche frammento del Bello ideale è del tutto immutabile. La poesia assoluta è, in effetti, il perfettamente compiuto insieme di una parte. Sebbene sia appena un frammento del Bello ideale, la poesia assoluta, nel suo insieme, è una irriducibile complessità del sistema. Non le si può ne togliere ne aggiungere niente – come direbbe Michelangelo – senza pregiudicare il suo equilibrio interiore ed esteriore e la sua pienezza. Inoltre, la forza immanente dell’assoluto, sempre e nuovamente la restituisce al proprio predefinito, all’impostazione di base, come il comando default sul computer, definito nella preferenza del Bello ideale.

Una tale riflessione ci porta, naturalmente, in una direzione opposta a qualsiasi interpretazione esatta della poesia; perché la poesia, o almeno quella di cui noi parliamo, non ha niente in comune con l’esatto. Ciò che qui c’interessa è quel miracoloso luogo, dove nell’orizzonte infinitamente distante si toccano la terra e il cielo / il mare, quel sottile spazio che ininterrottamente e infinitamente si restringe e che, sembra, alla fine scompaia del tutto nel Nulla. Ma sebbene di sottigliezza perfetta e inconoscibile alla mente nuda,2 questo filo sottile pur tuttavia esiste. In questo luogo fervente di energia creativa, accade quell’affascinante assunzione dei segnali metafisici, quell’orfico dejà vu di lettura del Bello ideale che, in effetti, è il momento stesso della nascita della poesia assoluta.

 

Traduzione di Rodolfo Segnan