AMARCORD ORLOVEC
Non saprei dire perché o percome un remoto angolo di un insignificante rione cittadino, stravolto da innondazioni, terremoti, ruspe, cemento e dal passare del tempo, potrebbe meritare di vedersi risuscitato in una virtuale ricostruzione tridimensionale, come quelle che si creano per una maestosa città orientale o le acropoli scomparse, per le strepitanti arene romane del passato o le mistiche piramidi maya. Orbene, chi mai potrebbe trovare interessante un microcosmo di casette e orti diseguali, sparpagliati ai confini della città, senza alcun piano regolatore, attorno a una viuzza lastricata con cubetti di pietra, che sfociava nella modesta piazza Orlovec con la sua bottega di coloniali, il fruttivendolo, il fornaio, la falegnameria e il barbiere? A chi mai e perché dovrebbe venire in mente di riportare ogni cosa indietro, farne un documentario TV, e... tac-tac-tac, grazie all'animazione in 3D al computer, rianimare in un battito di ciglia la scomparsa civiltà in bianco e nero di un piccolo rione periferico degli anni Cinquanta-Sessanta apparsa e scomparsa senza alcuno strascico simbolico degno di nota?
Fermo in piedi, fra l'impazzare di un'infinità di veicoli nel vasto parcheggio, da un lato delimitato da un massiccio grattacielo vetro-cemento di qualche banca ultramoderna, e dall'altro da un viale a scorrimento veloce invaso da isterici bolidi urbani, che in un'incessante onda verde si precipitano in ambedue le direzioni, cerco di capire dove mai ci fosse un tempo la verde piazzetta Orlovec. Se fossi un geometra avrei probabilmente già individuato qualche punto di riferimento nelle remote creste montane che circondano la città, o in qualcuno dei rari edifici scampati alle frequenti calamità naturali e al forsennato stress urbano. Ma io non conosco la matematica dello spazio nel quale si è innestata, con archimedea eliminazione del vecchio grazioso plastico di Orlovec, attorniato da casette nei colori naturali della terra, questa tetragona parte della città, solida, cementata, incolore, sismicamente refrattaria : un plastico assolutamente moderno, ideato con vigorosi tratti da un archistar come Kenzo Tange e lontanissimo da questi ricordi oltremodo personali.
Cerco allora di cancellare tutto e di evocare nel vuoto subentrato la temperie della Orlovec di un tempo e del suo immediato circondario.
Sì, là al margine occidentale del parcheggio, proprio là mi sembra, si iniziava il cortile della scuola popolare che frequentavo, sempre chiassosamente gioioso. Novembre, nebbia fitta, trepidazione, una perentoria campanella elettrica e l'assalto di una miriade di bambini ai lunghi corridoi acustici: era il primo giorno nella nuova scuola, dopo il trasferimento dal paesino, dove l'inizio e la fine delle lezioni erano annunciati dal bidello che sbatacchiava una campanella di smagliante ottone. Lì, nel villaggio, tutto si presentava in qualche maniera stranamente serio e rigoroso. Ci recavamo a ricreazione o a merenda assurdamente silenziosi, sempre tirati a lustro e ben pettinati come tanti educandi di qualche austero collegio inglese. Naturalmente quello era lo scenario di un altro amarcord, pregno di pathos e di bandierine, ma privo dell'inebriante serenità che, grazie proprio a quella nuova scuola in cui mi ritrovai, avrebbe pervaso ogni istante della mia prima infanzia. Perché lì c'era qualcuno che, come noi, era veramente fantasioso e innocente, e forse anche i tempi erano tali. Ogni tanto, durante la lezione, la campanella scolastica rimbombava all'improvviso e in un attimo nei corridoi che conducevano alla mensa scolastica si riversava una rumorosa fiumana di bambini festanti: È arrivato il gigante! Enorme, dalla grande testa pelata, il collo taurino, i „moustaches“ impomatati con l'apposita cera e piegati fino al considerevole doppiomento, il trucco alla Charlot, generosamente unto di olio e nudo fino alla cintola, compresso in una cintura alta quasi una spanna..., un colosso con due assistenti ci attendeva al centro della sala. Circondati da ogni lato dai bambini, in quella piccola arena improvvisata apparivano come taumaturghi itineranti. E non c'era bisogno che qualcuno gridasse: Silenzio!, perché, non appena ci eravamo sistemati all'intorno, calava un mutismo irreale, e il gigante con i suoi assistenti, avvolti in una nube grigio-bianca di talco, ondeggiante leggera e ipnotica attorno alla lunga china dei raggi solari che da qualche parte in alto penetravano nella sala, iniziava senza proferire verbo il suo piccolo, pressoché rituale, cabaret. Gli mettevano sulle spalle una rotaia di binario a scartamento ridotto e invitavano un paio di ragazzini e fanciulline ad appendersi alle due estremità, dopo di che l'omone saltellando curvo incominciava, dapprima lentamente poi sempre più velocemente, a girare su se stesso come una giostra, finché la barra non era completamente piegata. Poi lo rifaceva ancora una volta o due, con altre rotaie e altri bambini e bambine, tra un divertimento, un'allegria e strilli incontenibili. E spesso non finiva lì, perché i colossi che capitavano nella nostra città erano talvolta anche dei mangiatori di fuoco e, addirittura, erano capaci di inghiottire bicchieri di vetro, cucchiai e lamette da barba.
Ma nella nostra scuola passavano ogni tanto anche prestidigitatori e ipnotizzatori vari, addestratori di scimmie e Zingari con orsi, i quali allora, mentre eseguivano nel cortile scolastico il proprio numero con tamburelli e danze, attiravano pure gli occasionali passanti e gli inquilini delle case circostanti. Mi sembra di vederli arrampicarsi su un immaginario recinto ai margini dell'odierno parcheggio, lì dove a quel tempo si iniziava la schiera di case non smaltate, lungo una neonata viuzza che portava direttamente a Orlovec. Al suo termine, che finiva tagliato di netto, c'era, più o meno nello stesso punto in cui c'è adesso il parchimetro, una fontanella pubblica. Come alla sorgente, l'acqua vi usciva in vigoroso fiotto, sia d'estate che d'inverno, incessantemente. Durante le roventi giornate estive si potevano vedere disseminate al suo intorno piccole pozze d'acqua e grandi bucce striate, rosso-verdi, di anguria a forma di mezzaluna, attorno alle quali ronzavano da tutte le parti vespe e api imbizzarrite. D'inverno, poi, come nelle fiabe dei Grimm, la fontanella era presa nella morsa di ghiaccio azzurrognolo e trasparente dal quale faceva a malapena capolino la punta verde scuro della cannula con il suo incontenibile getto di acqua gelida. Alla fine della schiera di minuscole case che, quasi come negli album illustrati, così sepolte dalla neve apparivano ancora più piccole, la fontanella era un importante coordinato visivo, alla stregua di quella macchinetta automatica blu che vomita le ricevute per il parcheggio. Ed è certamente ancora qui sotto, da qualche parte. Nell'indistricabile groviglio della nuova infrastruttura sotterranea, che sostiene la segnaletica del parcheggio e quant'altra, avviluppata dalla fitta edera dei cavi telefonici ed elettrici sottostanti, quella vecchia cara conduttura, che alimentò la fontanella per tanti anni e alla quale ci abbeverammo con tanto piacere, la raggiunge tuttora, perché nell'incalzante fervore dei lavori i costruttori e le ruspe l'hanno semplicemente abbattutta e rinserrata nelle fondamenta. Talvolta pensiamo sia sufficiente calpestare brutalmente qualcosa, ridurla a scoria, azzerarla con il rullo, impregnarla di cemento e asfalto, per farla scomparire completamente dalla faccia della terra. Invece, come quei quadri viventi che intatti permangono dentro di noi, anche la nostra fontanella è qui da qualche parte – virtuale in effetti, ma pur sempre qui -, e nottetempo, quando tutto all'intorno tace e dorme, continua a bisbigliare tranquilla sotto il parchimetro blu.
Anche la scuola venne all'improvviso demolita, onde si spalancarono talune nuove vedute della città, che, dal canto loro, sconvolsero del tutto l'equilibrio e la rilevanza dei vicini orti, che adesso ostruivano il tracciato della nuova strada che da Orlovec doveva condurre alla grande piscina coperta in costruzione nelle vicinanze. A sud gli orti arrivavano proprio al limitare dei muri di cinta della scuola ed era lì che effettivamente finiva la città. In quei campicelli non recintati avevamo potuto sorprendere talvolta le lepri brucare le cime dei germogli di cappuccio. In direzione del viale i margini degli orti raggiungevano quasi il centro dell'odierno parcheggio, e proprio in quello spazio oggi sono disegnati i posteggi per gli autocarri e gli autobus. Nella rappresentazione virtuale tridimensionale sullo schermo del computer, dal quale elimineremo per un momento quei mostri big foot del nuovo millennio, era inserita una capanna di paglia, non grande, in cui dalla primavera all'autunno viveva un vecchietto bonario che vendeva verdura e frutta appena raccolte. Odo ancora la madre che diceva: „Su, fa' un salto in orto a prendere la lattuga“. Andavo di corsa dall'ortolano il quale, non appena mi scorgeva alla staccionata, usciva dalla sua capanna con un grande coltello per gli ortaggi e andava a scegliere le due lattughe più belle dalla cui estremità obliquamente recisa sgorgava una fresca rugiada lattiginosa.
In seguito, prima ancora che venisse costruito il parcheggio, qualcuno pensò di innalzare proprio qui , in mezzo a quegli orti, la nuova scuola di balletto. Il bell'edificio, con una grande cupola di vetro, sorse in men che non si dica. Ogni giorno le piccole ballerine passavano per la nostra viuzza con le scarpette rosa graziosamente appese alla spalla, mentre una melodia pacata permeava tutto a noi d'intorno. Oh, com'erano privilegiate quelle piccole primedonne! Danzavano librandosi sugli orti scomparsi, sulle tenere punte e sulle foglie delle piante, levitavano salendo sull'immaginario gambo del fagiolo magico.
Un preciso giorno a ciò appositamente riservato, il padre mi conduceva dal barbiere di Orlovec per farmi tagliare i capelli. Quella visita non era preceduta da alcun preambolo più accattivante, del tipo una capatina alla pasticcieria „Pilot“, diciamo, o qualcosa del genere. No. Direttamente dal barbiere. Severo e rigido nella sua uniforme di ufficiale, in piedi dietro alla poltrona, tutto compreso nel suo ruolo come un guardiano, diceva: “Rasalo a zero. Così i capelli gli si rinforzeranno“. Era un rituale che avveniva così rapidamente per cui non riuscivo quasi a rimirare gli antichi specchi lucenti, i rasoi con gli eleganti manici di osso, i pettini piccoli e grandi e le spazzole, le bottigliette di acqua di Colonia, l'allume e le bacinelle con il talco, tutto ben allineato sulla piastra di marmo dell'armadietto che avevo davanti. Il negozio non era grande, come niente del resto a Orlovec, e perciò sempre affollato di clienti. E io non ero l'unico ragazzino che veniva rapato „a zero“. Talvolta ce n'erano diversi in attesa del loro turno, assieme ai padri, che intanto chiacchieravano distrattamente di sport, di caccia o del tempo, e allora, il giorno dopo, tutta la scuola sembrava brillare di „lampadari“, come ci chiamavano coloro che non dovevano sottostare a quella rigorosa iniziazione igienica.
Ma adesso cerco di stabilire a occhio e croce, dopo il pazzesco scombussolamento dell'ordine delle cose, in che punto si trovava la barbieria. E mi sembra che fosse proprio lì, nel bel mezzo della strada a scorrimento veloce, e che su quello strano autodromo virtuale, contro l'alta poltroncina da barbiere a forma di automobilina, dove mi stavano spietatamente rasando „a zero“, venissero a cozzare da tutte le parti le lucenti macchine e le potenti monovolume di fine millennio.
D'autunno, allorché i colletti delle giacche erano già alzati , e negli orti restava null'altro che i moncherini legnosi delle crucifere e, disseminati nelle aiuole, i paletti di sostegno delle piante, secchi e contorti, il tragitto da casa al negozio di coloniali, quello stesso tragitto che durante le giornate estive percorrevamo volentieri di corsa, ci appariva molto più lungo e insicuro. Una sfilza di non uguali pali di legno spartiva in tutte le direzioni lo stupefacente armamentario di fili elettrici che fischiavano in maniera raccapricciante nel vento carico di foglie di acacia, e anche i lampioni agli angoli delle case erano troppo deboli per scacciare dal crepuscolo gli spettri inesorabili delle paure infantili. Eppure nella bottega, nel caldo grembo semibuio di quel decrepito cubo, sbilenco tanto da sembrare un romboide, dagli alti antiquati scaffali e dai larghi banchi carichi degli articoli più diversi, l'inebriante mescolanza delle fragranze di tè, cannella e pepe, carrube e uvetta, zucchero e olio, marmellata, latte in polvere, caffè e cacao, farina, dolcetti secchi, biscotti e caramelle, e poi di petrolio, cinture di pelle, balle di tessuto a buon mercato e sapone da bucato, tutto ciò serviva a restituirci in un batter d'occhio la perduta fiducia in noi stessi e il terreno sotto ai piedi. C'era sempre, nella bottega, molta gente, specialmente nelle vigilie festive, quando lungo il fiume già scendevano volteggiando dalle vette circostanti i primi fiocchi di neve natalizi.
Il venditore Strezo, alquanto in là con gli anni, il grembiule blu frusto e le mani sempre indaffarate, trascinava lento i piedi tra il magazzino nel retrobottega, gli scaffali e i banchi. Dai sacchi o dai barili abbbrancava routinario con delle grandi sessole di legno, farina, zucchero, sale, riso o fagioli per versarli in cartocci di carta marrone che poi, con abile mossa e compiendo un mezzo giro su se stesso, lanciava sulla bilancia. L'olio per cucinare e il petrolio per le lampade si trovavano in botti un po' discoste davanti al banco. La gente tirava fuori dalle sporte di paglia le bottiglie con i turaccioli fatti con le cime di pannocchia o con rotoli, ormai bisunti, di carta di giornale, e le poneva sul banco davanti a lui. Strezo, che non aveva mai fretta di fare né posti in cui andare, raggiungeva l'una o l'altra delle botti, ognuna delle quali aveva un proprio imbuto dalla larga bocca e un mestolone appeso all'orlo unticcio. Quand'anche risvegliato di soprassalto e a occhi chiusi Strezo le avrebbe facilmente trovate, come avrebbe con altrettanta facilità riconosciuto ogni bottiglia della contrada. Da anni le riempiva con gli stessi gesti misurati: reggendone con una mano il collo, in cui era infilato l'imbuto, con l'altra affondava l'enorme mestolone nella botte e, sollevandolo in alto, perfettamente calmo e preciso, lo svuotava nell'imbuto, tanto quanto serviva a non farle mai traboccare. E mentre lo faceva nella bottega regnava un insolito silenzio. Tutti fissavano senza parlare il rigoglioso, elegante fiotto di olio o petrolio, che indubbiamente dovevano trasmettere qualche antico significato arcano. Dal canto mio, non ho mai penetrato i meravigliosi significati reconditi dei barattoli quadrangolari e bislunghi di vetro, adagiati sul banco, pieni zeppi di bonbon variopinti e di caramelle al latte; e ogni acquisto si concludeva gaudiosamente solo se avevamo il permesso di aggiungere qualche soldino affinché Strezo infilasse la mano nel barattolo con le caramelle che poi, lungo la via di casa, a quel punto non più tanto lunga né terribile, ci si sarebbero sciolte in bocca.
L'inverno e la neve rendevano Orlovec tenera come un racconto infantile. Da qualche parte di là dal fiume giungevano nere carrozze con i loro robusti cavalli ansanti e i cocchieri in alto a cassetta. Apparivano all'improvviso nell'arcaica filigrana del ponte di ferro, che spuntava proprio sulla piazza stessa, per andarsene in qualche luogo dall'altra parte della città. Talvolta una carrozza si fermava, mentre i cavalli nitrivano e il cocchiere li ammansiva, dinnanzi al negozio del fruttivendolo. In quelle giornate invernali infinitamente bianche la sua vetrina era colorata di calde etichette rosse, verdi, azzurre e arancione, applicate alle cassette piene di frutta esotica. Chi ci inviava quei doni del Cielo? Chi si era dato da fare affinché principeschi rametti di datteri tunisini giungessero in pieno inverno in quella lontana, immaginaria periferia?
Ma ecco che quella antica, adorata neve tuttavia scende silenziosa su Orlovec. Mia Martini. La nevicata del cinquantasei. La cartolina è completa. Dal vecchio forno lì vicino tepore e biblico profumo di pane, di foccacce e pagnottelle. Un signore scende agilmente dalla carrozza per comperare qualcosa dal fruttivendolo. Un ragazzo davanti alla vetrina regge un rametto di datteri. Il cavallo sbuffa e batte gli zoccoli per terra. Nella cristallina profondità del candido paesaggio invernale trascorrono alcune nere carrozze. Il signore riappare con un sacchetto di grosse arance. Il cocchiere fa: „Diii“, le redini si tendono appena e nella sua possente statura il corpo equino, teso al massimo, si alza sulle zampe posteriori, nitrisce accennando un leggero movimento della testa a sinistra, la carrozza compie un semicerchio e ne va. Il ragazzo mangia datteri secchi.
In primavera i treni erano strapieni di viaggiatori. Desideri improvvisamente risvegliati li portavano dappertutto, e la nostra piccola periferia, attraversata dalla ferrovia, segnava la fine del viaggio per coloro che venivano da queste parti. Avvicinandosi, i treni rallentavano tra un forte stridio di freni e leggeri sobbalzi, mentre le locomotive emettevano lunghi fischi e enormi nuvole di vapore sibilante. A quel punto qualche volta i passeggeri appena risvegliati calavano i grandi finestrini fissando sorpresi la graziosa cartolina antistante, animata in primo piano da scatenati monelli. Quando invece i treni partivano era qui che si iniziava la loro graduale accelerazione, nuovamente tra lunghi fischi , sbuffi di fumo denso e il ritmico risuonare delle ruote sulle rotaie. Ancor sempre trasportati dall'entusiastica eccitazione per l'imminente viaggio, dai finestrini del convoglio si riaffacciavano i viaggiatori festosi, salutando con la mano bambini e passanti, sfregandosi gli occhi bersagliati dalla fuliggine e aggiustandosi le ciocche di capelli che, indomiti, gli sferzavano guance e fronte. E quando infine il treno sfrecciava via, e l'aria agitata al suo seguito cessava di vorticare, in lontananza si spalancavano davanti ai nostri occhi i placidi e infiniti orizzonti di campi azzurrognoli e di frutteti, in un paesaggio sconfinato ebbro di rosolacci, che irresistibilmente ci adescava, ma che era tuttavia troppo grande per i nostri fragili anni.
A quel punto, bruscamente e senza remore, come si fa con uno schizzo non riuscito, qualcuno strappò sfrontatamente il foglio con tutto quello spazio, lo appallottolò e lo gettò nel cestino sotto il tavolo. Rimodellò tutto con i tratti aguzzi, senza una sola curva, della matita da disegno tecnico e col righello, e nella riconfigurata sezione urbanistica immise grigi parallelogrammi e volumi senza memoria alcuna. Il grande parallelepipedo orizzontale della nuova banca, tutto vetro e marmi preziosi, fagogitò l'intera piazza di Orlovec con la rivendita di frutta , la panetteria, la barbieria e la bottega di coloniali. Dall'alto di un parellelepipedo verticale, confitto al centro dell'edificio più basso, di recente una donna si è gettata nel vuoto e, a giudicare dalle coordinate da me arbitrariamente tracciate nello spazio, è probabilmente caduta nel mezzo dell'officina di falegname, proprio ai piedi di quell'anziano artigiano, un Armeno, al quale mia madre aveva ordinato la prima libreria per i miei libri. Invece lì, dove scalzi un tempo agitavamo gioiosamente le mani in segno di saluto ai capomacchinisti e ai viaggiatori, adesso si trovano i vasti saloni fortemente illuminati con gli innumerevoli sportelli per i viaggiatori, le informazioni, il deposito bagagli , il rent-a-car e le agenzie turistiche di una moderna stazione ferroviaria, nella quale, come in qualche lontano aeroporto, altoparlanti piacevolmente tarati annunciano sommessamente, sussurrando, quasi corteggiando, gli arrivi e le partenze di futuristici treni espressi. Come su una specie di viadotto librantesi in aria, la strada ferrata era stata alzata di buoni dieci metri più in alto, e all'incirca là dove, nelle giornate dolcemente ventilate, i nostri piccoli aquiloni di canne e carta variopinta davano la caccia alle correnti atmosferiche calde, adesso un pilastro di cemento armato - pesante in maniera opprimente - della stazione ferroviaria aveva violentemente trafitto la cupola di vetro della scuola di balletto, penetrando negli antichi orti, due volte morti.
Traduzione di Elis Geromella Barbalich